La compiutezza dell’espressione artistica

E vissero tutti felici e contenti… è così che finiscono le favole, narrazioni semplici che però hanno una struttura e soprattutto un finale, il dopo bisogna immaginarlo, facendo un passo indietro e rientrando nella realtà. E’ importante che una narrazione abbia una sua architettura, dei personaggi con una psicologia ben determinata, un contesto credibile e un messaggio che, qualunque esso sia, ci comunichi il pensiero del narratore, questa è la compiutezza.

Invece, sempre più spesso, ci troviamo in balia di narrazioni senza costrutto che non vogliono più finire, sia nel caso della letteratura scritta, che in quello del racconto per immagini (cinema e TV).

L’utenza è pigra e va assecondata, i lettori sono pochi e si scrive sia per la carta stampata che per le trasposizioni cinematografiche, anzi ormai quello che si pubblica ambisce ai ben più lauti guadagni dell’opzione di una casa di produzione.

C’è infatti un vasto pubblico di spettatori che preferisce le serie TV al cinema, e se legge un romanzo poi vuole vederlo sullo schermo, del resto in ogni casa ce n’è uno di tutto rispetto, che consente la visione accovacciati nel divano, vestiti comodamente e interrompendo quando si vuole.

Così per le serie TV si spendono più soldi che per i film, e in recitazione, costumi, fotografia e scenografia la qualità è alta. Il problema è la sceneggiatura (a meno che non si tratti di riduzioni di opere letterarie o miniserie pensate già con una propria compiutezza): il più delle volte si parte da un’idea, che può anche essere buona, e si tenta una prima stagione di 8-12 puntate, poi si tirano le somme, si cerca di capire cosa maggiormente sia piaciuto al pubblico e si prevedono altre stagioni, che perdono in qualità dalla seconda in poi, quando il pubblico è già intrappolato e si può andare avanti senza un progetto, senza mai fine.

Ad esempio, dopo sette stagioni e la promessa di aver concluso, Downton Abbey ha messo in cantiere un film e si parla di un sequel e un prequel, perché non è la storia che interessa ma la sua atmosfera. Il telespettatore si è già affezionato ai personaggi e al contesto e seguirà il racconto nelle sue incongruenze, nell’annacquamento del plot, nei decessi provocati dai capricci degli attori, nell’improbabile età del personaggio interpretato da Maggie Smith, di cui non si può fare a meno.

Ma c’è di peggio, ci sono quelle serie TV che ti lasciano in bilico ad ogni finale di stagione, con ipotesi e personaggi gettati nel plot solo per pensarci meglio in seguito, quando forse gli sceneggiatori verranno sostituiti da stagisti meno costosi e la trama seguirà il volere dei telespettatori, interpellati da sondaggi e indagini di mercato. Una narrazione on-demand, cucita addosso all’audience, tanto per completare quello scenario non più distopico (purtroppo) che vede ogni individuo chiuso nel proprio mondo, in balia di un intrattenimento fine a se stesso.

Per carità, non diamo tutte le colpe ai nuovi mezzi di comunicazione: la narrazione a ciclica è vecchia come il mondo, dai canzonieri medievali ai cicli epici, ai racconti a puntate pubblicate nelle riviste ottocentesche. Cos’erano i feuilleton, o romanzi d’appendice, se non gli antenati delle serie TV? E della serialità fu esponente perfino Charles Dickens, che creava i suoi romanzi secondo uno schema a puntate, con una piccola conclusione in ognuna di esse e poi un gran finale. Per non parlare del genere “Giallo”, in cui commissari e investigatori di ogni sorta hanno fatto la fortuna di scrittori che, fuori da quel genere, avrebbero anche saputo esprimere di meglio, ma a cui conveniva la scrittura ciclica.

Il problema semmai è la compiutezza, che potrebbe chiamarsi morale se non fosse un termine un pò retrivo, cioè il pensiero dell’autore, il suo messaggio, quello che resta al lettore (o spettatore) nel momento in cui compare la parola FineThe EndFin… oppure le frasi e vissero tutti felici e contentimorirono tuttifurono dannati… il resto dovrebbe essere lasciato all’immaginazione individuale, nel rispetto del tempo necessario per entrare in contatto con l’autore e comprenderne il pensiero.

Temo che l’assecondamento del pubblico attraverso la serialità della narrazione sia uno dei motivi del nostro impoverimento culturale, come una resa di fronte alla fatica di entrare in nuove narrazioni, speculazioni letterarie e dialoghi virtuali con gli autori. Mi sono sempre chiesta cosa distingua l’arte dal mestiere, ecco, forse è la compiutezza del messaggio, e noi lo stiamo perdendo.

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